
La porta cigolava come sempre, così come la maniglia montata al contrario.
Lo scoccare dello scurino che sbatteva sul muro sanciva l’ingresso in casa.
Tutto era come sempre: perfettamente al suo posto. Un odore di cenere e agrumi trovava spazio nel pulviscolo che galleggiava nell’aria, dei raggi di luce caldissima lo trapassavano, filtrati dalla porta d’ingresso quasi socchiusa. Avrei potuto percorrerla a occhi chiusi quella casa. Esplorata fin da bambino, sui muri erano incisi i segni dei miei palmi. Con le suole delle scarpe cercavo il pavimento ruvido, freddo come sempre, freddo come il tempo del ricordo.
In cucina il profumo si faceva più intenso, gli scurini delle finestre erano accostati, quanto bastava per far scorrere gli occhi sulla parete piena di foto e riconoscerne gran parte dei volti. Sembrava un pomeriggio di primavera, eppure era Dicembre. Un mese, quello, anomalo come pochi, freddo a tratti ma sempre pungente, alternato da splendide giornate e forti piogge, una sorte maledetta per i pastori del paese.
Continuando a scorrere ero finalmente arrivato alla sorgente di quel buon profumo; sopra la pietra del camino erano poggiate delle bucce di mandarino, seccate dal tempo, tenute in vita da un fuoco ormai timido, un fuoco che solo io riuscivo a percepire.
Scelsi di sedermi nella sedia di fronte al camino e continuare a osservare e contemplare tutti quegli ultimi segni, tracciati dalla penombra e vivi nei ricordi. Il pane coperto con un panno. Le bucce poggiate sul granito caldo del camino. La piccola caffettiera incastrata tra i braccetti di ghisa della cucina. Una pentola laccata di verde chiusa da un coperchio, e il mestolo di legno consumato poggiato su uno dei due manici della pentola.
È così che si muovono i ricordi, mentre con l’indice apro un altro mandarino fresco di fronte al cammino, in una freddissima giornata piovosa di Dicembre., prima che l’assenza corroda la bellezza di queste immagini.